Ali Hassoun è nato a Sidone (Libano) nel 1964. Nel 1982 si trasferisce in Italia per proseguire gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1992 si laurea in Architettura presso l’università della stessa città. Oggi vive e lavora a Milano. Alla propria nazionalità libanese Hassoun ha aggiunto quella italiana, arricchendo così la parte mancante della propria esperienza individuale.
Il tema più facilmente isolabile della sua pittura è quello del viaggio, portatore di esperienze e visioni eterogenee. Al concetto di scontro tra civiltà, Hassoun contrappone l’idea di “umanità”: qualità universale che accomuna tutti i popoli, fondata su una spiritualità originaria che precede le diversificazioni religiose e politiche. Così l’artista si fa traduttore di culture diverse ma confrontabili, che convivono nello spazio perfettamente orchestrato delle sue tele coloratissime. I personaggi dell’Islam o dell’Africa nelle sue composizioni sono tutti catturati in un gioco di citazioni colte e di rimandi indiretti tra figura e sfondo.
Si sono occupati di lui: Omar Calabrese, Alberto Fiz, Luca Beatrice, Alessandro Riva, Luca Pietro Vasta, Aldo Mondino, Chiara Guidi, Maurizio Sciaccaluga, Ivan Quaroni, Gianluca Marziani, Marina Mojana e Beatrice Buscaroli.
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Il pensiero rotante di Ali Hassoun di Beatrice Buscaroli
“…Più d’ogni altra cosa è necessaria agli uomini, ma essi preferiscono tutto ciò che è complesso.”
Così recitavano i versi del poeta russo Boris Pasternak nel 1931, a proposito dell’importanza della semplicità nella vita dell’uomo o meglio dell’intellettuale spesso sovrastato dall’oscura violenza della storia.
Ali Hassoun sembra aver fatto tesoro di questo precetto venuto da molto lontano, dai vapori del passato. Nato a Sidone, in Libano, Hassoun aderisce al sufismo, corrente mistica dell’Islam, ed ogni suo intento appare essere quello di un tributo all’amore divino, che diventa amore per la vita e le sue forme, le sue cose e i suoi colori. La sua pittura recita con chiarezza la lezione di al-Ghazàli (1058-1111), filosofo arabo prossimo all’ascetismo sufi, autore della Vivificazione delle scienze religiose, opera imponente dove la semplicità d’espressione esprime con chiarezza concetti fondamentali rendendoli accessibili e quindi di facile applicazione. L’evoluzione recente del lavoro di Ali Hassoun attraversa anche una poesia sufi di cristallina semplicità di Ahmad al-‘Alawi in modo da creare un collegamento tra la scrittura araba, usata come una sorta di fondale, tra il didascalico e il decorativo, e la figura umana.
L’umanità ha sempre una presenza prorompente (una vivificazione,appunto) una intenzionale centralità che assegna il compito, il messaggio ulteriore, all’uomo, o meglio all’uomo semplice, al bambino, all’artigiano, alla donna araba impegnata nel trasporto dell’acqua e del cibo, attenta allo svolgersi della vita attraverso le sue funzioni primarie. C’è una forte identità locale ribadita dalla scelta dei soggetti, rigorosamente appartenenti alla cultura araba, oltre all’evidenza di un’etnìa orgogliosamente vestita in abiti tradizionali.
Ma quella inventata e descritta da Hassoun è un’identità tollerante, fedele al messaggio di al-Ghazali e del sufismo più in generale. Combinando elementi di straordinaria semplicità, e partendo dalla vita di ogni giorno dell’uomo qualunque, del bambino innocente, l’artista raggiunge lo scopo di comunicare un messaggio di straordinaria attualità, ora più che mai.
I fondali dipinti dei suoi quadri riportano con ammirazione le straordinarie bellezze della cultura occidentale, dal Rinascimento ad Annibale Carracci, dalla straniante ma affettuosa Metafisica di Giorgio de Chirico alla tradizione astratta di Caporossi. Figure semplici e solari trionfano comunicative sulle Demoiselles d’Avignon, vera icona della pittura occidentale di tutti i tempi.
Quello che stupisce e attrae nei suoi dipinti, a pochi anni dal loro apparire, è la sovrana naturalezza che questo doppio codice, di cultura e di colori, di mondi e di bisogni, riesce a creare. I fondali trascritti in una sorta di grisaille palpitante che sembra ridare una sorta di sommesso respiro ai dipinti, e i personaggi intenti alle loro occupazioni, indifferenti o perplessi, meditabondi ma vicinissimi, accostabili, presenti. Hassoun è riuscito a creare una sorta di nuova immagine della nostra europea e mille volte interpretata Malinconia, quando pone due stupende figure di donne scure che posano un dito al mento, sorprese e attonite da un pensiero, e le fissa davanti agli sfondi che non sono davvero sfondi ma non sono neppure protagonisti. Sembrano idee, che possono, o non possono far parte del pensiero della donna che vi si trova di fronte, vicina e lontana a un tempo.
Quella di Hassoun è una ricerca colta, che impiega l’olio su tela con sapienza, dedicando i colori sgargianti alla rappresentazione del suo popolo d’origine, ricco d’intensità mediterranea, giovane di forza e di una sorta di gaiezza speranzosa, e un rispettoso gioco di grigi per il fondale che ribadisce l’autorevolezza seria, la sacralità della storia, un’altra storia però.
Due mondi differenti che divengono complementari e non concorrenti, un accostamento che, per il fatto stesso di essere raccontato, potrebbe apparire perfino banale, appiattito sul profilo del politicamente corretto così abusato ai nostri giorni, ma che invece sortisce un effetto completamente opposto.
Quel che deriva da questa pittura, elaborata in questa formula originale, è la capacità di essere letta e interpretata immediatamente, raggiungendo una pulizia che solo la semplicità del racconto è in grado di garantire. Quello di Hassoun è un tributo ai suoi due mondi privati, quello di nascita, l’Islam, e quello d’adozione, l’Occidente, che coesistono nella Bellezza, svincolati completamente da preconcetti e sudditanze, combinati da un rapporto tra sfondo e primo piano tanto elementare quanto efficace. Queste opere raggiungono il valore di “allegorie morali e l’avvincente verità dei miti archetipi”, secondo la penetrante interpretazione di Marina Mojana e non solo per l’esito finale dell’opera di gradevole leggibilità, ma bensì per la costruzione sottile e attenta che la sottende.
Quello della semplicità (più apparente che reale) è un dettame che Ali Hassoun persegue con una tale chiarezza da apparire come una vera e propria missione. Il contesto “vincente” nel contemporaneo più affermato ai nostri giorni, prescinde infatti sia dalla pittura che dalla scultura, spesso banalizzando la figurazione e non considerando l’astrazione, giudicate superate dai tempi. Oggi si assiste troppo spesso ad un’arte confezionata, imballata e venduta secondo perfetti meccanismi commerciali, ma che contiene degli elementi spesso avvilenti, che raggiungono un senso, sempre che sia questo lo scopo, solo con interminabili contestualizzazioni critiche o attraverso indispensabili avalli.
L’opera così viene svuotata dalla sua primigenia forza derivante dall’immediatezza e originalità. Ali Hassoun, controcorrente, trasferisce nell’opera semplicemente se stesso.
A pieno titolo il suo lavoro può essere inserito tra le esperienze più originali nel recente panorama della Nuova Figurazione, per unicità dei soggetti e qualità della rappresentazione, ma quello che probabilmente rende ancora più interessante il suo lavoro è proprio il suo retroterra multiculturale o meglio transculturale.
Il messaggio incrociato di andata e ritorno tra le due culture riprese in pittura, l’Occidente e l’Islam, si congiunge in un flusso costante e convincente, senza frizioni e senza priorità. Oggi, in alcuni dei dipinti più recenti, Hassoun crea un rapporto ancora più complicato tra figure e sfondo. La scrittura che appare sui fondali non è soltanto massa inerte o formula decorativa: è un segreto tramite tra i due piani principali che aggiunge allo scorrimento quasi parallelo delle “storie” raccontate a colori e in bianco e nero una terza vitalissima strada. Alcuni caratteri sono in scrittura Kufi, i primi saggi di scrittura islamica vergati dopo la cultura di tradizione soltanto orale. Sono ricchi e rigogliosi come ornamenti gotici, come racemi romanici, ma hanno la forza viva della parola vera che contengono. Le figure ne vengono attraversate, a volte, come se fossero ombre, altre volte sembrano dominarle completamente, lasciando ai corpi la natura delle ombre.
Nel grande dipinto che mostra la storia di Teodolinda, tre piani si succedono. L’affresco medievale in grisaille, la scrittura islamica, e le due stupende sagome di donne arabe che incombono sul primo piano coi loro colori squillanti come un in un bazar d’oriente. E’ nella cappella monzese di Teodolinda che si conserva la croce di ferro che si dice forgiata con uno dei chiodi della corona di Cristo. Cinse tutti gli imperatori, fino a Napoleone. Ed ecco allora che le maschere che appaiono, una nell’affresco, le altre vivide e rosse, ai lati, sembrano allargare ancora la possibilità delle interpretazioni.
Il quadro è un perfetto equilibrio di masse e di persone. Di forme e di colori. Racchiude tante storie insieme, per chi sappia o voglia capirle. La “maschera” antica, in etrusco e poi in latino, si dice “persona”. Da una parola che significa maschera, da un oggetto che copriva tutto il capo e lo celava, deriva la parola che oggi significa persona, individuo, uomo. Dunque i pertugi sono infiniti. La scrittura avvia nuovi rapporti, la maschera apre nuovi scenari. Re, regine, donne arabe, maschere: personaggi ambigui, ancora da svelare.
Una straordinaria vitalità ha però il sopravvento, con la figura, ossia la natura dell’autore, che resta sempre in primo piano, ma la storia che si racconta nelle opere è orchestrata in modo più complesso, con influenze che appartengono all’altra storia, universale, della bellezza, della cultura, delle diverse storie. Difficile non ricordare in questo flusso continuo il messaggio sublime dei “sufi rotanti”, immersi nel movimento, nella bellezza, nella musica, nella perfezione, nella misura, nell’equilibrio.
Difficile non ricordare altri passi della medesima lirica di Boris Pasternak, Le Onde, che nel lontano 1931, da lande distantissime da quelle di Ali Hassoun, da luoghi differenti, dalla notte di una storia sepolta dal tempo recitavano:
“Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, non si può incorrere alla fine, come in un’eresia, in un’incredibile semplicità”.
Pensieri, parole, figure e fondali che ruotano.
2013 Pontedera, Museo Piaggio, “Il popolo vuole”, catalogo di L. Beatrice.
Nella storia. Nella complessità. 2011 Casale Monferrato, “Opere su Carta” Festival OYOYOY Libreria Il Labirinto a cura di Martina Corgnati.
2010 Catania ,”Sibille e Profeti” Galleria Side-A.
Siena ,”Bozzetti del Palio del 2 luglio 2010″ Santa Maria della Scala a cura di Giovanni Mazzini.
Siena, “Ali Hassoun alla confluenza dei due mari” Palazzo Pubblico Magazzini del Sale a cura di Martina Corgnati
2009 Torino, Senza T(r)itolo Eventinove Artecontemporanea
2008 Siena, Istanbul Modern Biale Cerruti Art Gallery
2007 Bologna, Grafique Art Gallery, Human.
Alzano Lombarda, Chiesa di S. Michele, Pictura
Alzano Lombardo, Mazzoleni Art Gallery, Il sole ad Occidente
Istanbul Siemens Sanat, After the Ordinary: Present Time.
2006 Catania, Istituto Europeo Promozione Arte contemporanea, Il guerriero e la rosa.
Ragusa, Associazione Culturale “Antonio Canni”, Il guerriero e la rosa.
Monza, Galleria Spirale Arte, Human.
Catania, L.I.B.R.A, Opening
2005 Verona, Galleria Spirale Arte, Hamel Al Nafs, a cura di Gabriel Mandel Khan.
Grosseto, Galleria B&B art, Hamel Al Nafs.
Roma, Neo Art Gallery.
Genova, Galleria Biale & Cerruti.
2004 Torino, Istituto del Mondo Arabo, Dar El Hekma, Verso Oriente, verso Occidente
Pietrasanta, Galleria Spirale Arte, Verso Oriente, testi di Ivan Quaroni e Gabriel Mandel Khan
Poggibonsi, 114 artecontemporanea, Acquarelli
Siena, Galleria Biale e Cerruti, Verso Oriente.
Gattinara, Galleria Arte&Altro Verso Oriente.